Si nasce
con il gusto di farsi una rivista. La mia prima l’ho fatta a
quattordici anni. Non lo sapevo. Ma precedevo di qualche anno l’età
di Piero Gobetti quando tirò fuori Energie nove. Si intitolava Progredi, con l’ovvia risonanza
post-illuministica, forse non voluta, a metà strada fra Comte e Condorcet. Nel 1946
pubblicavo, a Casale Monferrato, La Rivoluzione
umana – quindicinale della generazione nuova. Questa volta
l’assonanza con la gobettiana Rivoluzione
liberale era esplicita.
La mia
Rivoluzione, che aveva fra i suoi primi abbonati sostenitori l’on. Umberto Terracini,
all’epoca presidente dell’Assemblea Costituente e forse non
immemore delle sue giovanili simpatie anarchiche, doveva di lì a poco
essere bruciata in piazza da fascisti e stalinisti. Naturalmente, non
m’ero dato per vinto. Ma già fin dai primi anni ’40, nella
beata solitudine di Sanremo e di Nizza, e delle alte colline alle spalle
di Taggia, il tarlo sociologico mi rodeva e mi
lavorava dentro, come il sogno di una disciplina scientificamente
rigorosa e nello stesso tempo umanamente significativa. Avevo letto Emile Durkheim, che
intendeva studiare “i fatti sociali come cose”, ma anche, per
un colpo di fortuna, un libro poco noto di un autore sconosciuto, Les faits sociaux ne sont pas des choses di Jules Monnerot. Se Durkheim ha fatto in Francia i Cahiers
de sociologie, pensavo, perché non fare in Italia i Quaderni di
Sociologia? Ne parlai con Cesare Pavese, che, preoccupato, mi consigliava
di mettermi con la “cocca” di Cultura e realtà, vale a dire
con Felice Balbo, Mario Motta, Giorgio Ceriani Sebregondi, Claudio
Napoleoni, Natalia Ginzburg.
Non
faceva i conti con il mio solitario individualismo esasperato, ai limiti
dell’egotismo. Mi presero invece in parola due studentesse di Abbagnano, Magda Talamo e Anna Anfossi.
Poco dopo, abboccò lo stesso Abbagnano, con la
moglie Marian Taylor,
pronta ad accollarsi l’onore e l’onere della pubblicazione.
Era l’estate del 1951. Insperato successo. Al terzo numero della
smilza rivistina, l’allora Presidente
della Repubblica Luigi Einaudi ci manda un
articolo. Ma le vittorie sono pericolose. Toccatami la prima cattedra di
sociologia nel 1960, chiamo a collaborare colleghi, vecchi e giovani, da
Renato Treves a Angelo Pagani. I Quaderni
diventano accademici. Troppo, per il mio gusto.
Niente
da dire contro l’accademia come studio rigoroso, ricerche ben
impostate. Ma sentivo nell’aria, specialmente in California già nel
1964-1965, quando ero al “Center for the Advanced Study in the Behavioral Sciences”
di Palo Alto, i borborigmi della contestazione studentesca, il bisogno di
dirsi d’accordo con gli scopi innovativi del movimento ma senza per
questo chiudere gli occhi sulle irrazionalità, le confusioni, lo
“spaccio del bestione trionfante”, le violenze e le viltà che
lo stesso movimento, come un fiume limaccioso, portava inevitabilmente
con sé nel suo impetuoso procedere.
Se la
sociologia vuol essere la partecipazione critica dell’umano
all’umano, deve unire analisi rigorosa e attenzione
all’attualità, anche la più slabbrata. Non per mettersi al
rimorchio della cronaca, ma per cogliere nel dato empirico il suo senso
profondo, il collegamento con la totalità. Nel 1967 lascio i Quaderni di
sociologia e esce il primo numero di La critica
sociologica. Sono quattro numeri l’anno, dalla
primavera del 1967 alla primavera del 2007; quarant’anni;
dunque, centosessanta numeri, introdotti ciascuno dai miei corsivi, che
qui vedono la luce, seguiti dall’”Appendice”, che
contiene i testi della polemica con S. A. Efirov
a proposito della sociologia critica. Dal numero 161 La
critica sociologica verrà pubblicata dalla
Casa editrice Accademia editoriale,
Pisa · Roma sia nella versione cartacea, che nella versione on line
per gli abbonati istituzionali.
Roma,
1° luglio 2007
Franco Ferrarotti
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